Mediante il lavoro quotidiano proprio di ciascuno

San JosemaríaSantificazione, cioè, con il compimento fedele dei doveri del proprio stato. È il secondo aspetto della scoperta spirituale dell’autore, strettamente connesso con il primo. Esso si richiama direttamente all’esempio di Gesù, il Verbo incarnato, il quale per trent’anni fece l’operaio a Nazaret nella bottega e sotto la guida (come si compiace di osservare Escrivá) dell’artigiano Giuseppe (2). Si tratta infatti di “cercare la santità in mezzo al mondo, nel bel mezzo della strada […] nel proprio stato, nell’esercizio del proprio lavoro, in una professione liberale o in un mestiere manuale” impegnandosi a “realizzare questo ideale giorno per giorno, nella vita ordinaria” (Colloqui, n. 62).

A questo proposito egli ha coniato un’espressione ardita e insolita, ma efficace, quella di “materializzare [corsivo dell’autore] la vita spirituale”. E spiegava che non si tratta di “condurre una specie di doppia vita; da una parte la vita interiore, la vita di relazione con Dio; dall’altra, come una cosa diversa e separata, la vita famigliare, professionale e sociale, fatta tutta di piccole realtà terrene” (ibidem, n. 114). Non ci può essere che “una sola vita, fatta di carne e di spirito”: contro i materialismi chiusi allo spirito si tratta di “restituire alla materia e alle situazioni che sembrano più comuni il loro nobile senso originario, metterle al servizio del Regno di Dio, spiritualizzarle [corsivo nostro], facendone mezzo e occasione del nostro incontro continuo con Gesù Cristo” (ibidem).

E ricordando che la fede cristiana insegna la risurrezione della carne, egli crede “consentito […] parlare di un materialismo cristiano [corsivo dell’autore]” (3). E dopo essersi ancora richiamato alla dottrina paolina di santificare tutte le cose, anche il mangiare e il bere, commenta con gaudio: “Si tratta di un moto ascensionale che lo Spirito Santo (4), diffuso nei nostri cuori, vuole provocare nel mondo: dalla terra fino alla gloria del Signore” (ibidem). Questa dottrina della Sacra Scrittura di “vivere santamente la vita ordinaria” è “nel cuore stesso della spiritualità dell’Opus Dei” e “deve spingere a realizzare il proprio lavoro con perfezione, ad amare Dio e gli uomini tacendo con amore (5) le piccole cose della vostra giornata abituale, scoprendo quel qualcosa di divino che è nascosto nei particolari” (ibidem, n. 116).

Si tratta di scoprire e vivere la trascendenza nell’immanenza, ossia, come dice meglio Escrivá, “quando un cristiano compie con amore le attività quotidiane meno trascendenti, in esse trabocca la trascendenza di Dio” (ibidem).
Si potrebbe parlare di una “spiritualità totale del lavoro totale” con una elevazione continua e interiore dell’anima a Dio; e non semplicemente, se ho ben capito, soltanto mediante la “retta intenzione” della spiritualità tradizionale, che è presupposta ma anche superata mediante un atteggiamento che potrei chiamare di “totalità esistenziale” nell’immersione dell’anima in Dio fino a vivere – se può servire quest’espressione scolastica – la convergenza che tende ad attualizzare pienamente l’identificazione del finis operis col finis operantis.

Escrivá ha la formula felice: “Il vivere immersi nelle realtà secolari rispettando la loro autonomia, ma trattandole con lo spirito e l’amore delle anime contemplative” (ibidem, n. 22) (6). È l’uomo certamente che compie il lavoro, ma a sua volta il lavoro diventa costruttivo all’interno dello spirito: non solo “diventa preghiera”, ma è già in sé preghiera come tutto diventa aspirazione a Dio nel cristiano che vive la sua filiazione divina in comunione con la Trinità beatissima del Padre, del Verbo e dello Spirito Santo con gli occhi sempre rivolti al Modello Gesù Cristo. L’istituzione, allora (fatta da Pio XII), della festa di san Giuseppe Lavoratore può essere considerata “la canonizzazione del valore divino del lavoro”.

E qui interviene un balzo polemico che può sorprendere ma che illumina questo punto, ch’è forse quello più centrale nella sua Weltanschauung cristiana e che, pur nella sua naturalezza e semplicità, può sembrare di non facile comprensione. Comunque si tratta di un’osservazione coerente e geniale: “Anche se forse conviene farlo in taluni momenti e situazioni, generalmente non mi piace parlare di operai cattolici, di medici cattolici, di ingegneri cattolici e così via, come per indicare una specie all’interno di un determinato genere, come se i cattolici formassero un gruppetto separato[corsivo nostro] dagli altri uomini, perché così si dà la sensazione che esista un fossato tra i cristiani e il resto dell’umanità. Rispetto l’opinione contraria, ma penso sia molto più appropriato parlare di operai che sono cattolici o di cattolici che sono operai, di ingegneri che sono cattolici o di cattolici che sono ingegneri”.

Questo “perché l’uomo che ha fede ed esercita una professione – intellettuale, tecnica o manuale – è e si sente unito agli altri, con gli stessi diritti e gli stessi obblighi, con lo stesso desiderio di migliorare e lo stesso slancio per affrontare i problemi comuni. Il cattolico” – e la spiegazione è decisiva – “saprà fare della sua vita quotidiana una testimonianza di fede, di speranza e di carità; testimonianza semplice e spontanea che, senza manifestazioni vistose, ma attraverso la coerenza di vita, dà rilievo alla costante presenza della Chiesa nel mondo: giacché tutti i cattolici sono essi stessi Chiesa, membri a pieno diritto dell’unico Popolo di Dio” (È Gesù che passa, nn. 52-53).

Confesso che questa è una pagina che mi ha profondamente impressionato per la sua radicalità esistenziale e attualità nel mondo contemporaneo, dominato dalla tecnica più progredita in particolare al livello del lavoro più specializzato.
II lavoro, insiste, è essenziale a un membro dell’Opus Dei: “un lavoro cioè che contribuisca effettivamente all’edificazione della città terrena (e che sia fatto quindi con competenza, con spirito di servizio) e alla consacrazione del mondo (e che pertanto sia santificante e santificato)” (Colloqui, n. 70).

Note
(2) Il medesimo monsignor Escrivá ha tenuto il 6 febbraio 1960, quindi prima del Concilio, una splendida omelia sul lavoro: Lavoro di Dio (Amici di Dio. nn. 55 ss).
(3) Colloqui, n. 115. Il termine manca in Cammino e nelle Omelie: in queste l’equivalente possono essere le affermazioni incisive e frequenti di: contemplativi nel mondo, santificazione del lavoro, sulla terra e in Paradiso nello stesso tempo…e simili, nel senso che non si tratta di abbassare il soprannaturale al livello naturale, ma di innalzare questo a quello.
(4) Ecco il senso profondo di quel “materialismo cristiano”.
(5) Anche questa è dottrina biblica.
(6) In questa materia egli si riferisce anche al Concilio Vaticano II: alle costituzioni Lumen gentium, nn. 11, 44 e Gaudium et spes, n. 43, ai decreti Apostolicem actuositatem, n. 7 e Perfectae caritatis (Colloqui, n. 11).

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