Solo un romanzo pieno di copiature

Richiesto da più parti di parlare de Il Codice da Vinci (scuole, ascoltatori radiofonici, lettori), ho dovuto leggerlo. Anzi, studiarlo. Chiuso il libro, sono rimasto avvolto dal mistero. E il mistero è questo: come ha fatto un libro del genere a vendere diciassette, diconsi diciassette, milioni di copie in tutto il mondo? Si, perché, detto fra me e voi, ho letto di meglio, e non poche volte.

Per esempio, ci sono autori italiani di thriller, avventura e mistery che Dan Brown manco lo vedono. Epperò devono accontentarsi di poche migliaia di copie, anche quando sono bestselleristi seriali. Prima di immergerci nello specifico del suddetto Codice, tuttavia, è bene premettere che tre fattori hanno contato molto in questo planetario successo: uno è l'uso della lingua inglese.

L'altro è il mercato americano. Infatti, Harry Potter della britannica Rowling, pur scritto in Inglese, non vendette granché fino a quando non fu notato da un editore americano, il quale lo lanciò con ben altre tirature su un pubblico potenziale di duecentosettanta milioni di persone. Se si tiene conto del fatto che l'inglese è la lingua più diffusa, ormai la "lingua franca" del pianeta, si comprende perché scrivere in inglese dia indubbiamente un vantaggio che, per esempio, l'italiano non ha (è vero, anche lo Spagnolo e il Cinese possono contare su mercati smisurati, ma l'inglese è la lingua parlata da chi ha i soldi per comprare romanzi e tempo libero per leggerli).

Il terzo fattore è dato da una cosa poco nota da noi: una bella fetta di pubblico statunitense va matto per la letteratura apocalittica che descrive complotti storici e universali orditi dal Vaticano. Molto in voga tra i fondamentalisti protestanti, questa letteratura ci è sconosciuta perché ci farebbe solo ridere e la catologheremmo nel trash. Tuttavia costituisce un filone importante nel pulp d'Oltreoceano.

Ora, il Codice si è giusto buttato a corpo morto in questo argomento, avendo l'accortezza di infarcirlo di particolari eruditi (ma si fa per dire, come vedremo), così da situarsi a un livello un po’ superiore. Naturalmente, nessuno storico e nessun teologo (e nessun esperto di arte) prenderebbe per oro colato quel che c'è scritto nel romanzo. Ma, che volete, siamo in provincia e, quando si viene a sapere che un libro ha venduto milioni di copie in America, scatta l'effetto curiosità.

Per chi non l'avesse ancora letto: nel libro si danno come cose vere a) il fatto che Cristo sia regolarmente morto dopo aver figliato con Maria Maddalena, b) la discendenza ha dato luogo alla dinastia francese dei Merovingi e ancora esiste, c) un'organizzazione segretissima, di cui facevano parte i Templari, tiene vivo il segreto, d) la Chiesa, nei secoli, avrebbe cercato di far fuori i depositari dello stesso, e) tra i quali c'era Leonardo, che l'avrebbe trasmesso in codice nelle sue opere, f) oggi chi dà la caccia a chi sa la verità è l'Opus Dei.

Ora, nel libro che ho curato per la Piemme (Piccolo manuale di apologetica) uno dei capitoli, a firma di Massimo Introvigne (tra i maggiori esperti mondiali di sociologia delle religioni), fa le pulci al Codice e invita a riflettere sul fatto che se uno si mettesse a proclamare che, poniamo, gli esponenti del buddismo sono una banda di assassini mentitori e che il loro fondatore non era affatto casto, ci sarebbe una levata di scudi universale e certo anche una querela per diffamazione.

Invece, lo storico americano Philip Jenkins nel suo recente Last acceptable prejudice ha ragione a dire che nulla di tutto questo succede quando il bersaglio è il cattolicesimo. Ci sono, per giunta, parecchi svarioni nel Codice, come per esempio il monaco killer dell'Opus Dei, il quale, tra l'altro, si reca agli agguati armato, sì, ma senza neanche mettersi in borghese. Peccato che nell'Opus Dei non esistono monaci.

In un altro punto si asserisce (il protagonista, esperto di simboli) che i gradi militari sono apposta dei triangoli con la punta rivolta all'insù, chiaro simbolo maschile. Solo che ciò avviene nell'esercito americano, laddove in quello italiano, per esempio, la punta è rivolta all'ingiù. E l'ingresso di donne nell'esercito italiano e cosa recentissima e del tutto minoritaria, Ora, a parte questo (e altro), la tesi del libro è tratta pari pari da Il Santo Graal del 1982, opera di Michael Baigent, Richard Leigh ed Henry Lincoln (che infatti meditano un'azione per plagio), già usata nel 1983 da Lewis Perdue nel romanzo Da Vinci Legacy e, nel 1989, dal sottoscritto nel giallo medievale L'inquisitore (San Paolo). Solo che i protagonisti del mio romanzo sì guardavano bene dal prenderla sul serio e, anzi, la smascheravano nell'intera trama.

Lo spagnolo José Antonio Ullalte, autore di un recentissimo La verdad sobre "EI Codigo da Vinci", da buon cattolico si è però indignato e, in un'intervisto, ha sostanzialmente detto che si, è solo un romanzo, ma "se nella nostra vita quotidiana qualcuno insinuasse in tono scherzoso, che nostra madre è una svampita, nessuno sano di niente continuerebbe ad ascoltare, pensando che "tanto è uno scherzo". Ci indigneremmo, e chiederemmo spiegazioni immediatamente" .

Carl Olson e Sandra Miesel hanno invece deciso di fate le pulci all'autore (che ha insegnato storia dell'arte ed è marito di un’esperta d'arte) col libro The Da Vinci Hoax, nel quale si trova, ad esempio, che il quadro di Leonardo "La Vergine delle rocce" nel romanzo di Brown è dato come alto un metro e mezzo quando in realtà misura oltre due metri. E' solo una delle infinite perle, tanto che Cynthia Grenier sul Weekly Standard del 22 settembre 2003 ha sbottoto: "Per favore, qualcuno fornisco a quest'uomo e ai suoi editori le lezioni di base sulla storia del cristianesimo e una cartina geografica". E Peter Millar, sui londinese Times del 23 giugno 2003: "Questo libro è, senza dubbio, il più stupido, inesatto, poco informato, stereotipato, scombinato e popolaresco esempio di pulp fiction che io abbia mai letto".

Ma perché continuare ad infierire? E' solo un romanzo, Buona (si fa per dire) lettura, dunque.