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Data: 16-10-2004
Autore: Marco Respinti
Fonte: Il Domenicale
Editore: -
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Le bufale de Il Codice da Vinci

Il popolarissimo romanzo di Dan Brown racconta una storia già mille volte raccontata e già mille volte sbugiardata. E dove innova, sbaglia. Né verosimile né storico, non convince nemmeno come fantasy. Leggete un altro libro.

«Ho scritto 12 libri di saggistica sinora, e ho deciso di smettere. [...] Credo che la verità si possa diffondere meglio attraverso i romanzi». Lo dice – in una intervista rilasciata a Francesco Garufi nel libro Rennes le Château: un’inchiesta (Edizioni Hera, Roma 2004) – Michael Baigent, colui che assieme a Richard Leigh e a Henry Lincoln ha dato il la alla storia dei figli di Gesù attraverso best-seller fortunati quali Il Santo Graal. Una catena di misteri lunga duemila anni del 1982 (trad. it. Mondadori, Milano 2004) e L’eredità messianica del 1996 (trad. it. Tropea, Milano 1999). Lo dice lui e ne ha ben donde, giacché Il Codice Da Vinci di Dan Brown (trad. it. Mondadori 2003, oggi alla 31a ristampa) racconta le stesse storie dell’oggi disciolto trio britannico, salvo però non dirlo (l’ultimo reprint de Il Santo Graal strilla invece dalla fascetta: «Il libro che ha ispirato “Il Codice da Vinci” di Dan Brown»).

Ora, i libri di Baigent, Leigh e Lincoln sono saggi che inventano una storia, mentre il “giallo” di Brown è un romanzo che si crede un libro di storia. Anzi, che fa credere ai lettori di essere storicamente fededegno – magari proprio perché tacitamente si basa su Il Santo Graal e L’eredità messianica –, mentre invece è fiction, quanto pura è da vedere.

Infatti, la primissima edizione italiana del libro di Brown recava (come del resto l’originale inglese) una paginetta intitolata Informazioni storiche in cui si dava per vero quello che nel romanzo non è nemmeno verosimile; ma, nelle ristampe, la paginetta e le informazioni sono rimaste, mentre quel titolo a dir poco imbarazzante è scomparso (resta invece nella versione inglese).
Così, quello che continua a essere sempre e solo un romanzo dà da bere al lettore che nel 1099 sia stato davvero fondato quel Priorato di Sion, il quale, sia nei saggi di Baigent, Leigh e Lincoln sia nel thriller di Brown, custodisce la “sacra coppa” e la verità segreta sulla storia del mondo. Mentre non è affatto vero.

Immaginiamo Buddha...
«Immaginiamo questo scenario», scrive Massimo Introvigne, fondatore del Centro Studi sulle Nuove Religioni di Torino in un articolo di critica pubblicato sul sito della sua istituzione. «Esce un romanzo in cui si afferma che il Buddha, dopo l’illuminazione, non ha condotto la vita di castità che gli si attribuisce, ma ha avuto moglie e figli. Che la comunità buddhista dopo la sua morte ha violato i diritti della moglie, che avrebbe dovuto essere la sua erede.

Che per nascondere questa verità i buddhisti nel corso della loro storia hanno assassinato migliaia, anzi milioni di persone. Che un santo buddhista scomparso da pochi anni – che so, un Daisetz Teitaro Suzuki (1870-1966) – era in realtà il capo di una banda di delinquenti. Che il Dalai Lama e altre autorità del buddhismo internazionale operano per mantenere le menzogne sul Buddha servendosi di qualunque mezzo, compreso l’omicidio».

E prosegue: «Pubblicato, il romanzo non passa inosservato. Autorità di tutte le religioni lo denunciano come un’odiosa mistificazione anti-buddhista e un incitamento allo scontro fra le religioni. In diversi paesi la sua pubblicazione è vietata, fra gli applausi della stampa. Le case cinematografiche, cui è proposta una versione per il grande schermo, cacciano a pedate l’autore e considerano l’intero progetto uno scherzo di cattivo gusto. Lo scenario non è vero, ma ce n’è uno simile che è del tutto reale. Solo che non si parla di Buddha, ma di Gesù Cristo; non della comunità buddhista, ma della Chiesa cattolica; non di Suzuki e del suo ordine zen ma di san Josemaría Escrivá (1902-1975) e dell’Opus Dei da lui fondata; non del Dalai Lama ma di Papa Giovanni Paolo II».

Questo è Il Codice da Vinci. Esiste insomma un complotto ruotante attorno all’Opus Dei che, a Parigi, mira a impedire all’ultimo Gran Maestro del Priorato di Sion, Jacques Saunière, curatore del Museo del Louvre, di rivelare al mondo la verità sottaciuta e repressa da sempre dalla Chiesa. Vale a dire che Gesù non fondò su Pietro la vera Chiesa, ma che il Messia diede origine a una stirpe nata dal grembo di Maria Maddalena, moglie sua ma per bieco maschilismo relegata alla subalternità.

Questa progenie è la linea del sang réal così che il Santo Graal altro non è se non la nascosta tomba di Maria Maddalena. Fra intrighi polizieschi, assassinii e accuse incrociate, lo studioso statunitense di simbologia Robert Langdon e la criptologa Sophie Neuve, nipote di Saunière, arrivano addirittura all’ex presidente francese François Mitterrand, “noto” esoterista e massone che volle la piramide del Louvre per celarvi agli occhi del mondo nientemeno che la tomba-Graal della Maddalena.

La povera, infatti, attendeva da tempo la “liberazione”. Depositaria della priorità del principio femmineo su quello maschile, ella sposò quel tale Gesù che mai peraltro pretese di essere Dio. Costantino, poi, padre-padrone di quell’impero che andava divenendo cristiano, s’inventò una storia e una teologia nuove che potessero fare da instrumenta regni. Via le donne, su gli uomini, ed ecco inventato il primato di Pietro. Ma ci voleva una proclamazione solenne: ecco dunque il Concilio di Nicea del 325, autoritario e antifemminista.

Qui, fra i molti ricchi, belli e simbolici che esistevano, la Chiesa petrino-romancostantinian-maschilista-cattolica scelse come canonici quattro vangeletti innocui che non dicono alcunché di toccante, pungente o piccante. Gli altri vennero reietti dal club dei presentabili e bollati verboten giacché “eretici” o “gnostici”.

Quindi, scese in campo il suggello di quest’alleanza fra Trono & Altare usurpatori. Ci volle un po’ più di tempo, ma alla fine la dinastia dei merovingi venne fatta fuori dai carolingi, poi capetingi. Dagoberto II, l’ultimo dei mohicani-merovingi, fu infatti anche l’ultimo sovrano legittimo della stirpe maddaleniana del sang réal fatta fuori dal potere costantiniano. E dal papa, il quale benedisse il Cielo il giorno in cui un Carlo dei franchi un po’ carlone gli chiese di essere incoronato imperatore sacro e romano, in realtà cavalier servente dei Successori di Pietro.

Fu quel dì il trionfo della menzogna, la vittoria contro tutto ciò che per la Chiesa cattolica era “maddalenume”. Ma il “maddalenume” è un lumicino che ancora fumiga e così organizza la resistenza nel Priorato di Sion, di cui sono Gran Maestri certi luminari del genere umano, tedofori segreti della fiamma della verità vera, perseguitati dall’alleanza menzognera fra Trono & Altare. Fra questi vi è anche Leonardo da Vinci, che ha lasciato molti indizi della verità vera nelle proprie opere.

Il potere iniziatico di una nipote
Sembra un po’ Il senso della vita di Monty Python mescolato a Brian di Nazareth? In effetti... È una storia già sentita? Certo. È infatti quella di Rennes le Château, peraltro più volte demistificata (in ultimo dal citato libro di Francesco Garufi, recensito sul Dom n. 41). Addirittura i nomi sono gli stessi: Jacques Saunière richiama don Bérenger Saunière (1852-1917), parroco di quel paesino dei Pirenei.

Nel romanzo, i cognomi Plantard e Saint Claire, “tipici” degli ultimi discendenti merovingi di Gesù e della Maddalena, appartenevano agli antenati di Sophie Neuve prima che, per paura, essi lo cambiassero: ma è una citazione di Pierre Plantard (1920-2000) – il truffatore ben noto alla giustizia francese che fondò il Priorato di Sion, non nel 1099, ma nel 1956, davanti a un notaio – il quale rivendicò per sé il sacro lignaggio iniziatico (lo stesso che nel romanzo porta a Sophie) inventandosi un’aura merovingia con la creazione del nomignolo falsamente nobile «Plantard de Saint-Claire». Un’altra citazione, questa volta dal famoso “trio britannico”, è il personaggio di Sir Leigh Teabing, nel romanzo un «ex storico reale britannico», che ammicca a Richard Leigh.

E siccome chi di cabalismo di quart’ordine ferisce, di esso pure perisce, si potrebbe anche insinuare che qualcosa di arcano, di magico e d’iniziatico celi addirittura la scelta browniana di dare a Sophie il cognome che ha, Neuve, termine francese per “nipote” ma maschio: ne Il Codice Da Vinci, dove l’ambiguità regna merovingicamente sovrana, Sophie è invece evidentemente una femmina, nipote, nièce, di un Saunière, l’ultimo Gran Maestro del Priorato di Sion, che però è il cognome di un prete dei Pirenei che per definizione non figlia, che però aveva una perpetua chiacchierona e faccendiera, che giocava volentieri con la stirpe maddaleniana, che... Cosa vorranno mai dirci, insomma, gli astri di Brown con questo gioco di androginie linguistiche? Probabilmente un bel nulla, come l’intero suo tentar romanzescamente le improbabili essenze di una storia autenticamente fasulla.

Uno scherzo da prete
Dunque la stoffa del romanzo di Brown è la storia falsa del tesoro inesistente di Rennes le Château, il cui poco misterioso parroco, lungi dall’essere un massone o un iniziato che trovò le prove della genealogia maddaleniana in una cripta della propria chiesetta, era un trafficone che venne sospeso a divinis perché vendeva lucrose Messe.

Eppure se non fosse stato per la sua perpetua, Marie Denarnaud (1868-1953), la storia sarebbe finita lì, una solenne e simoniaca figuraccia. Don Saunière, infatti, la nominò intestataria di tutti i propri beni e questo per impedire al suo vescovo di entrarne in possesso. Fu poi la Denarnaud che alimentò le leggende del tesoro da Mille e una notte. Quindi giunse Noël Corbu (1868-1953), il personaggio che, collaborazionista ai tempi della Seconda guerra mondiale, fornisce il link con il nazismo magico alla ricerca di Graal, lance di Longino e verità nascoste in Tibet. Corbu acquistò dall’ex perpetua il complesso di don Saunière per farne un ristorante, ma poi ci prese gusto e, a partire dal 1956, cominciò a pubblicare sulla stampa locale vaneggiamenti di preti misteriosamente miliardari. Se ne interessarono allora gli esoteristi e i giornalisti.

Fra i primi spicca Pierre Plantard, già animatore del gruppo Alpha Galates; fra i secondi Gérard de Sède, autore, nel 1967, de L’or de Rennes ou la vie insolite de Bérenger Saunière, curé de Rennes-le-Château. La consacrazione arrivò però nella seconda metà degli anni Settanta quando Baigent, Leigh e Lincoln s’interessarono alla vicenda, pubblicando poi Holy Blood, Holy Grail, da noi Il Santo Graal. Scoppiò insomma la mania per l’esoterismo fatto in casa e a caso, e così la “storia maddaleniana” diventa il “segreto” più pubblicizzato del mondo, grazie anche (nota Introvigne) «alla BBC, che batte la grancassa». Che il Santo Graal sia il sang réal dei figli di Cristo lo si afferma peraltro solo a partire da Plantard, pure lui già amico dei nazisti. Detto questo – che non ammonta certo a plagio, ma a riciclaggio sì –, il numero delle sciocchezze e dei falsi di cui è irto il romanzo di Brown è legione.

Antichissimo, anzi nuovo
Partiamo dal Priorato di Sion, che esiste solo perché è stato fondato a metà del secolo scorso. La famosa nota sulle Informazioni storichede Il Codice da Vinci oramai orbata di titolo, parla di documenti di quell’ordine ritrovati nel 1975 alla Biblioteca Nazionale di Parigi: ma lì stavano perché lì ce li aveva in precedenza messi Plantard. Philippe de Chérisey, morto nel 1985, ha più volte confessato di esserne stato il principale autore, per altro non pagato e quindi costretto (vi sono delle lettere, questa volta autentiche) a ricorrere agli avvocati. Nel Medioevo esistette sì un piccolo ordine religioso denominato Priorato di Sion, ma ebbe vita brevissima e nessuna connessione con Maddalena, il Graal, i merovingi e i Pirenei.

Ma, una volta in più, anche lasciando da parte la vicenda di Rennes le Château, l’attendibilità delle notizie contenute ne Il Codice Da Vinci non aumenta.
Anzi. Anzi, proprio un libro come The Da Vinci Hoax: Exposing the Errors in “The Da Vinci Code”, pubblicato quest’anno per la Ignatius Press di San Francisco da Carl E. Olson e Sandra Miesel, che ignorano completamente la vicenda di Rennes le Château, rincara la dose.

Stando al romanzo, Gesù non era di natura divina né mai lo proclamò: fu solo al Concilio di Nicea che, con un colpo di mano petrino da parte dell’imperatore Costantino che lo convocò, si stabilì quel falso dogma. Olson e la Miesel rispondono citando un classico, il fondamentale Early Christian Doctrines, di John Norman Davidson Kelly del 1958, la cui seconda edizione riveduta uscì nel 1978 (viene costantemente ripubblicato: ultimamente nel 2000, dalla Continuum International Publishing Group di Londra e New York) e che in italiano è stato tradotto come Il pensiero cristiano delle origini (Dehoniane, Bologna 1984).

Già nei secoli precedenti Nicea, la natura sia divina sia umana di Gesù era universalmente riconosciuta, con il «Gesù è il Signore» della Lettera ai romani (10,9) e il «Gesù Cristo è il Signore» della Lettera ai filippesi (2,11) quali prime e più antiche confessioni di fede. A Nicea, del resto, non si stabilì affatto che Gesù, il Figlio di Dio, fosse divino, giacché questo era appunto creduto: ci si occupò invece di quale fosse l’esatta relazione esistente fra il Figlio e il Padre. Uguali? Di un’unica sostanza? Due persone distinte? Il Concilio giudicò quindi eretica una dottrina all’epoca popolare, l’arianesimo, secondo cui il Figlio era una divinità inferiore, creata dal Padre a un certo momento del tempo e non esistente ab aeterno.

Inoltre, all’epoca del Canone Muratoriano (siamo attorno al 190), i quattro Vangeli “sempliciotti” sono già canonici e gli gnostici invece out, il tutto una novantina d’anni prima della nascita di Costantino. Del resto, se c’è una costante certa nella storia del cristianesimo, fra ortodossia, scismi e ed eresie, è proprio la canonicità dei Vangeli di Matteo, Marco, Luca e Giovanni.
Se Brown predilige lo gnostico Vangelo di Tomaso, va ricordato che si tratta del testo che fonda la grandezza della “moglie” di Gesù sul fatto che ella «[...] si fa maschio».

Quello che quando Simon Pietro dice: «Maria deve andare via da noi! Perché le femmine non sono degne della Vita», Gesù replica: «Ecco, io la guiderò in modo da farne un maschio, affinché ella diventi uno spirito vivo uguale a voi maschi. Perché ogni femmina che si fa maschio entrerà nel Regno dei cieli».

Il romanziere afferma poi che i primi cristiani s’impadronirono dell’uomo Gesù ammantandolo di una falsa divinità onde legittimare ed espandere il potere della Chiesa romana. Il vero Gesù, carico di umanità, sarebbe infatti quello che restituiscono appunto solo i Vangeli gnostici.

In realtà, i sinottici e Giovanni tratteggiano, spesso dettagliatamente, il Gesù falegname ebreo che diviene rabbi con molti riferimenti storici oggettivi e riscontrabili, e talora mostrano un attaccamento all’hic et nunc che ha pochi pari, laddove il “Gesù gnostico” appare un etereo conferenziere che tiene lunghi, complessi e criptici sermoni sugli “eoni” e su “gli arconti” adatti solo a una ristretta élite intellettuale.

L’Opus Dei, Geova e Asterix
Ma Dan Brown non si arrende e, sul proprio sito Internet, crea una pagina specifica con un titolo che non ammette dubbi, Bizarre True Facts from “The Da Vinci Code”.

Uno di questi è il fatto che l’Opus Dei «ha recentemente terminato la costruzione di una sua sede centrale nazionale, del costo di quarantasette milioni di dollari, situata al numero 243 di Lexington Avenue, a New York City». Embè? A parte il fatto che l’Opus Dei è una prelatura personale e non una «chiesa», come talora viene scritto nel romanzo, la cosa più assurda è invece il personaggio di Silas, un «monaco» albino che ne Il Codice Da Vinci è un assassino dell’Opus Dei. Gli è però che l’Opus Dei non è un ordine religioso e che i suoi membri sono per la stragrande maggioranza laici; i sacerdoti sono meno del 2%. Ma, come notano Olson e la Miesel, l’Opus Dei assume nel romanzo di Brown il posto che già fu della Compagnia di Gesù, “notoriamente” un “truce” “corpo speciale” a cui la Chiesa ha sempre affidato i lavori sporchi. Un po’ come gl’inquisitori, insomma.

Poi il nome di Dio. Ne Il Codice Da Vinci, uno dei protagonisti, Robert Langdon, esperto statunitense di simbologia, spiega coram populo l’origine di YHWH (pronunciato Yahweh), ovvero il sacro nome di Dio che gli ebrei osservanti credono non si debba mai pronunciare. Per bocca di Langdon, il romanzo dice che YHWH deriva da Geova, il quale sarebbe l’unione androgina del maschile Jah e del femminile Havah, ossia il nome preebraico di Eva. In realtà, qualsiasi enciclopedia seria informa sul fatto che “Geova” è un termine della lingua inglese (“Jehovah”) inesistente prima del secolo XIII e comunque poco usato fino al XVI. Fu creato artificialmente combinando le consonanti di YHWH (o JHVH) e le vocali di “Adonai” (“Signore”), che è il termine con cui, nell’Antico Testamento, gli ebrei sostituirono l’impronunciabile YHVH.

Inoltre, il nome ebreo (e non pre-ebraico) di Eva è hawwâ (pronunciato “havah”), che significa «madre dei viventi». Nulla di tutto questo ha caratteristiche androgine.

E come potrebbero mancare i templari? Secondo Brown, Papa Clemente V ne bruciò centinaia, disperdendone le ceneri nel Tevere. Nel romanzo lo dice lo storico Sir Leigh Teabing. Il fatto è invece che i templari furono bruciati principalmente a Parigi, poi in misura molto minore in altre tre cittadine francesi e forse a Cipro. Traccia di roghi romani non ve n’è. E comunque Papa Clemente V avrebbe potuto giocare ben poco con le loro ceneri nel Tevere: si tratta infatti del pontefice che aprì la Cattività avignonese e che dunque non stava nell’Urbe, ma nell’entroterra della costa mediterranea francese. Né i templari, nonostante Brown, self-confessed edotto in storia dell’arte, ebbero alcunché a che fare con l’architettura gotica.

In ultimo, nel romanzo si dice che “tutti sanno” che i merovingi hanno fondato Parigi. No: la città era un villaggio gallico fondato con il nome di Lutetia Parisiorum dalla tribù di quelli che in latino suonavano celti parisii; un nome che fa probabilmente riferimento a Lug, il dio celtico del sole. Per Olson e la Miesel, nessun parigino colto avrebbe mai commesso l’errore. Ma certo nemmeno un lettore delle avventure di Asterix, tradotto pure nella lingua di Brown.

Ora, se fosse un romanzo storico, Il Codice Da Vinci andrebbe criticato sul piano di Sir Walter Scott e di Alessandro Manzoni. Non essendolo, va trattato come fantascienza; ma come fantasy è bruttino, più simile alla serializzazione delle abbazie cum delicto di Ellis Peters (1913-1995) che a Umberto Eco. Letterariamente, poi, un passo come: «Da allora aveva la fobia dei luoghi chiusi: ascensori, metropolitane, campi di squash» stronca anche i più volenterosi.

 

 

 

Josemaría Escrivá