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Data: 1994
Autore: V. Messori
Fonte: Opus Dei. Un'indagine
Editore: Mondadori
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Tante sètte, una Prelatura

Attaccata da "fuori" con continue e ripetute campagne di stampa, denunce, tentativi di interdizione che giungono fino alle interrogazioni parlamentari; attaccata da "dentro" da parte di quei cattolici che condannano come "integrismo preconcìliare" il suo radicalismo evangelico e come "volontà di restaurazione" la sua fedeltà rocciosa al Magistero papale, la Obra è sotto il tiro - in tutto l'Occidente, ma in particolare negli States - dei "movimenti antisètte".

È un aspetto poco noto, anche agli stessi cattolici, della lotta intorno a questa prima Prelatura della Chiesa cattolica. Vale la pena di parlarne per confermare quanto alta sia, qui, la posta in gioco.

Poiché non riuscirei a trovare parole più precise e informate, vi allegherò più avanti quanto scrive, per inquadrare il problema, il saggista italiano Massimo Introvigne, tra i maggiori conoscitori internazionali di quel pullulare selvaggio di "nuove religioni" che hanno realizzato il contrario esatto - comme d'habitude - di quanto profetizzavano i soliti "esperti": sociologi, futurologi, ma anche teologi e specialisti vari di questioni religiose, molti preti e vescovi non esclusi.

Del resto, sapete anche voi che non va mai dimenticata la più attendibile tra le definizioni di "esperto": "Un signore, il cui compito principale consiste nello spiegare periodicamente, a pagamento, perché egli stesso e i suoi colleghi hanno sbagliato tutte le previsioni".

Per stare al nostro caso, negli anni Cinquanta e Sessanta (ma anche oltre), questi specialisti della cantonata in confezione severamente "scientifica", teorizzavano cose come "l'eclissi del sacro nella civiltà industriale"; assicuravano che il futuro sarebbe stato "secolarizzato"; giuravano che non c'era più posto, nella cultura tecnologica e postmoderna, per la dimensione religiosa.

Ci fu, tra i mille, un biblista, il famoso tedesco Rudolf Bultmann, che, già negli anni Venti, impressionato dalle radio a galena e dalle lampadine elettriche a filamento nelle case, sentenziò che era impossibile che l'uomo potesse maneggiare pulsanti per ascoltare voci a distanza o avere luce artificiale e continuare a prendere sul serio qualunque Sacra Scrittura.

Così, dallo sbigottimento naif per il "progresso" di un professore da biblioteca teutonica, nacque la demitizzazione dei vangeli, da "depurare" da tutto ciò che non sapesse di "scienza" e di "ragione" in senso tardo-ottocentesco. E ancora adesso, negli attardati "pensatoi" clericali, c'è chi prende sul serio la caricatura bultmanniana, tutta teorica, di presunto "uomo moderno".

È capitato, naturalmente, l'opposto di quanto previsto. A Est, il maggiore e più prolungato sforzo di tutta la storia per sradicare ogni fede nel Trascendente dal cuore dell'uomo e convenirlo all'ateismo materialista, non solo non ha raggiunto i suoi obiettivi, ma alla fine è stato vinto anche (o, forse, soprattutto) proprio perché i popoli non volevano rinunciare alla religione: anzi, di essa, smentendo ogni teoria, facevano motivo non di "alienazione", bensì di tenace impegno pure sociopolitico.

Vediamo di non dimenticare ciò che già certa disinformazia cerca di oscurare: l'inizio della fine, per tutto il blocco marxista, ha una data precisa, quella dell'agosto 1980, quando gli operai polacchi di Danzica si barricano nei cantieri simbolo del regime comunista (non a caso intitolati a Lenin) dando vita al primo - ripeto: primo - sciopero che non si abbia il coraggio di reprimere con la violenza, in tanti decenni e in tanti Paesi a regime marxista.

Sui cancelli, quei lavoratori appendono due immagini che provocano uno choc nei "progressisti" dell'Occidente che le vedono alla televisione: una Madonna di Czestochowa e il ritratto del "loro" papa, eletto due anni prima e che, nell'estate precedente, era stato in visita in patria, ben mostrando da quale parte stesse il popolo sotto quei regimi "popolari".

Quei filmati degli ingressi dei cantieri sbarrati, "protetti" dalla Madonna e dal papa e dischiusi solo per far entrare, acclamatissimi, il cardinale primate o qualche vescovo; quelle immagini degli operai in fila, in attesa di confessarsi, davanti a preti in abito talare e in stola violacea seduti su sgabelli nei cortili delle officine; tutto questo (come ben sa chi lo vide allora, per settimane, nei telegiornali) sconvolse di colpo scherni che sembravano granitici e segnò davvero l'uscita dai miti della "modernità" ideologica.

Quanto all'Ovest, la prevista "secolarizzazione" è stata sostituita, tutto al contrario, da un'esplosione senza precedenti di sètte, chiese, chiesuole, conventicole più o meno esoteriche, culti orientaleggianti, con centinaia di denominazioni, con un numero impressionante e crescente di adepti spesso fanatizzati. Così che ogni tanto ci scappano la strage, l'omicidio rituale, lo scandalo sessuale o fiscale. Dando, comunque, ulteriore conferma alla diagnosi di Gilbert K. Chesterton; "II guaio dell'uomo di oggi non consiste nel non credere in niente. Al contrario, il suo guaio consiste nel credere in tutto".

Geovisti, mormoni, hare krishna, scientologi, bambini di Dio, new age, moonisti; questi nomi e realtà ben conosciuti e con schiere di adepti anche in Italia (i testimoni di Geova, per esempio, sono ormai la seconda confessione religiosa nella penisola dopo i cattolici), non sono che poche delle punte emergenti da un mondo formicolante su cui quel Massimo Introvigne di cui vi dicevo ha incentrato la sua ricerca.

Dalla quale risulta che si cerca di implicare anche l'Opus Dei in questa esplosione sospetta di una "nuova religiosità" che, accanto a discepoli ferventi, ha fatto emergere pure avversari altrettanto intransigenti, se non ugualmente fanatici.

Sentiamo, dunque, Introvigne. Una citazione un po' lunga, ma su cui credo valga la pena di riflettere. In effetti, in genere non se ne sa molto, mentre i problemi posti qui riguardano un numero crescente di persone: pare che in Occidente ciascuno abbia già - o avrà in un prossimo futuro - un parente o un amico o almeno un conoscente coinvolti in qualche modo nella "esplosione mistica" che prelude a quel XXI secolo che avrebbe dovuto essere quello della "secolarizzazione compiuta".

Per venire al nostro esperto: "Di fronte al proliferare delle nuove religioni - che non mancano talora di aspetti francamente discutìbili - nascono fenomeni contrari che vanno sotto il nome dì "movimento antisètte", ormai oggetto a sua volta di analisi sociologiche e psicologiche di notevole impegno. Tali analisi hanno messo in luce come il "movimento antisètte" (Anticult Movement) che si oppone alle nuove religioni - definendo alcune di esse "culti distruttivi della personalità", insistendo sull'ipotesi di 'lavaggio del cervello" e richiedendo allo Stato misure repressive - sia una realtà sostanzialmente diversa dai gruppi che contrastano le nuove religioni a partire da una religione "ufficiale", "storica", maggioritaria.

"Mentre la protesta contro le "sètte" può dare l'impressione di essere un fenomeno unitario, in realtà non è affatto così, e l'osservatore più attento non può non notare l'intreccio tra due movimenti diversi, che nascono da origini contrapposte, hanno interessi divergenti e le cui contraddizioni talora esplodono.

"Da una parte vi è la tradizionale avversione verso le nuove religioni che viene dalle Chiese e comunità tradizionali, le quali formulano un giudizio negativo dì carattere prevalentemente dottrinale. Tale giudizio presuppone che esista una verità, anche in campo religioso, che l'uomo, seppure con difficoltà, può in qualche misura attingere: e che vi siano quindi criteri di verità e di valore sulla cui base le nuove religioni possono essere esaminate e fatte oggetto di una valutazione.

"A questa critica di matrice religiosa si oppone - più di quanto non si affianchi - il "movimento antisètte" (le cui origini si situano normalmente al di fuori degli ambienti religiosi), che prende spunto dall'allarme sociale suscitato dalle nuove religioni per proporre in realtà una critica di tutte le esperienze religiose "forti", avvengano queste nell'ambito di religioni maggioritarie o minoritarie.

Mentre la critica, per così dire, ''religiosa'' delle nuove religioni mette in luce gli aspetti discutibili delle "sètte" in nome della verità e dei valori, l'Anticult Movement, al contrario, considera "settario" chiunque non accetti il relativismo e si ostini a credere che esista, anche in campo religioso, una verità".

Ne deduce l'Introvigne che stiamo seguendo: "È una polemica le cui motivazioni ideologiche sono facilmente identificabili e che facilmente scivola dalla critica delle "sètte" alla critica della religione in generale. Sul bollettino ufficiale di una delle principali associazioni europee dell'Anticult Movement, l'ADFI ("Associazione di difesa delle famiglie e dell'individuo"), francese, uno dei maggiori protagonisti del movimento, Alain Woodrow, scriveva recentemente che "a priori non c'è nessuna ragione per mostrarsi più indulgenti verso le Chiese che verso le sètte".

A proposito del cristianesimo, Woodrow scrive per esempio che "nel corso della sua lunga storia [...] la Chiesa cristiana - cattolica, ortodossa e protestante - è stata accusata degli stessi eccessi, spesso giustamente, di cui ci si lamenta a proposito delle sètte...". Anche se, aggiunge Woodrow, "dopo l'ultimo Concilio della Chiesa cattolica, bisogna riconoscere che il clima è molto cambiato" e che "lo spirito settario della Controriforma è finalmente morto"".

In particolare, si rallegra Woodrow, ""i digiuni e le altre forme di ascesi sono praticamente scomparsi, e il regolamento all'interno dei seminari e delle case religiose è molto umanizzato dopo il Concilio".

A queste condizioni, il nostro autore può dire che la Chiesa cattolica non è (o meglio non è più) una "sètta": ma ci si chiede quale sia il giudizio che il movimento dà su realtà - che peraltro vivono tranquillamente all'interno delle Chiese e comunità maggioritarie - dove "i digiuni e altre forme dì ascesi" non sono affatto scomparsi, insieme al "catechismo imparato a memoria", allo "spirito della Controriforma" e all'idea di costituire la "sola vera Chiesa".

Si tratta di critiche assolutamente consuete e tradizionali in un certo ambiente ideologico laicista nei confronti della Chiesa cattolica e di altre esperienze religiose cristiane. Facendone, tuttavia, il criterio principale di critica delle "sètte" si rischia di rendere non più comprensibile le categorie di "sètte" o di "nuove religioni" - in quanto distinte dalla religione tradizionale - e di ridursi a una generale polemica antireligiosa".

Prosegue sempre Introvigne: "Una figura di punta del movimento "laico" anticulti scriveva del resto che "tra chiese e sètte, esiste solo una differenza di grado e di dosaggio", e perfino che "legalmente, la linea di demarcazione tra la conversione e il lavaggio del cervello è difficile da tracciare"".

E qui arriviamo finalmente a ciò che più ci interessa: "Da questo punto di vista, mentre il movimento antisètte rivolge i suoi attacchi anche contro realtà come l'Opus Dei, che evidentemente fanno parte a pieno titolo del mondo cattolico, c'è da attendersi in futuro - una volta rimossi alcuni equivoci e ingenuità - una crescente divaricazione tra la critica religiosa (in Italia, soprattutto cattolica) delle nuove religioni condotta in base a criteri dottrinali di verità e di valore (e generalmente diffidente nei confronti degli interventi dello Stato sul terreno della religione) e l'attacco di matrice laica alle "sètte" e al "settarismo", il cui punto di partenza è precisamente il rifiuto della possibile esistenza di ogni verità religiosa, "vecchia" o "nuova" che sia, insieme alla denuncia - con proposta di reprimerla legislativamente - di ogni esperienza religiosa "forte", avvenga questa nell'ambito di religioni tradizionali o alternative".

Fin qui Massimo Introvigne.
Nel lucido inquadramento generale dato da lui al problema, la nostra Obra sembrerebbe un obiettivo tra i tanti. In realtà, da anni gli Anticult Movements ne hanno fatto un bersaglio privilegiato, come mi confermava, in un incontro, lo stesso studioso: "Nei loro giornali e riviste, un articolo virulento contro l'Opus Dei non manca mai, magari finendo con la richiesta alle autorità di metterlo fuori legge.

Tra i loro cavalli da battaglia c'è lo scandalo per l'uso del cilicio, praticato personalmente e consigliato ai suoi (seppure con doverosi limiti e precisazioni) dal beato Escrivà. Sembrano ossessionati, questi Anticults, proprio dal cilicio, quasi che non fosse una scelta libera e volontaria di altre persone libere e adulte, ma un'imposizione fatta a loro" (ma su questo tipo di contestato "ascetismo", cilicio e "frusta" compresi, torneremo più avanti)

Nel convegno internazionale dal titolo esplicito Totalitarian Groups and Cultism, tenuto a Barcellona nell'aprile del 1993, un sociologo spagnolo - Alberto Moncada: un "ex", mi dicono - al termine di un violento j'accuse contro l'Istituzione fondata dal suo connazionale Escrivà, ne auspicava "l'inclusione nell'elenco delle sètte pericolose per l'infanzia".

Richiesta peraltro singolare, visto che l'Opera non accetta - e solo "in prova" - che chi abbia compiuto 18 anni e, dunque, non è di certo più "infante". Comunque, il professor Moncada annunciava compiaciuto la fondazione a Pittsfield, Massachussets, di un network, una "rete" dedicata soltanto a combattere in ogni modo l'Opus Dei in tutto il mondo.

Secondo Massimo Introvigne, "in realtà ciò che disturba, spesso scandalizza, nell'Opus Dei, è il processo di conversione che molti vi vivono, prendendo la prospettiva evangelica "troppo sul serio" per i gusti di chi - oggi magari nella Chiesa stessa - vorrebbe ridurla a etica, a morale, a educazione civica, a impegno sociopolitico accettabili da tutti".

È comunque sorprendente che, tra le motivazioni sulla cui base si combattono i "culti" - mettendo nel calderone anche, se non soprattutto, l'Opera - ci sia la speculazione economica che sempre sarebbe praticata dai dirigenti dei gruppi religiosi.

È sorprendente, dico, perché anche questi Movements dall'apparenza tanto virtuosa sembrano essere divenuti un fruttuoso affare; oltre che un'attività al di fuori delle leggi. In effetti, il "plagiato dalla sètta" (la quale, dunque, spesso è l'Opus Dei: pare che nella sola Spagna, per non parlare degli Stati Uniti, alcune decine di giovani aspiranti membri siano stati vittime delle violente "cure" di costoro) viene bloccato, cacciato in un furgone, trasportato e recluso in un alloggio segreto o nella camera di un motel.
Qui si procede a quella che chiamano "deprogrammazione", per guarirlo dal "lavaggio del cervello" che gli sarebbe stato praticato nella "sètta".

Ma una "deprogrammazione" (dall'esito, tra l'altro, spesso deludente per i rapitori) viene fatta pagare in media 50 mila dollari a coloro - parenti o amici - che hanno richiesto l'intervento dei movement-men, che spesso hanno fatto di questo la loro lucrosa ed esclusiva professione.

Secondo molti studiosi dell'inquietante fenomeno, l'insistenza nel presentare anche l'Opus Dei come una sètta pericolosa (la quale, pertanto, giustificherebbe la "deprogrammazione" coatta) nascerebbe da una strategia precisa. Soprattutto negli Stati Uniti, i movimenti antisètte fermentano in ambienti di protestantesimo radicale o di liberalism agnostico o di ebraismo fondamentalista o tra i molti "massonismi" spesso impazziti e trasformati in schegge incontrollabili: per tutti costoro il "nemico" vero, quello da battere a ogni costo, è la Chiesa cattolica

Non, certo, la Chiesa di alcuni Paesi, ormai estenuata, come arresa al "mondo", dì profilo volontariamente basso, che sembra quasi implorare il perdono per ancora esistere, seppure come ecumenica "organizzazione umanitaria". No: la lotta è evidentemente con la Chiesa del papa, di un papa "tosto" che reagisce alla mentalità dominante e ricorda le esigenze di un vangelo che, necessariamente, divide, provoca contrasti. Una Chiesa che, più che inseguire gli indici di gradimento, non dimentica l'inquietante (e, oggi, intollerabile per molti) avvertimento di Gesù: "Credete forse che sia venuto a portare la pace sulla terra? No, vi dico, ma la divisione" (Lc, 12,51).

Così, l'attività di questi ambienti contro l'Opus Dei mira più in alto, ha come bersaglio vero il vertice vaticano stesso, utilizzando la diffamazione dell'Istituzione dì Escrivà che - per la sua fedeltà al Magistero - è vista come la temibile Compagnia di Gesù dei tempi moderni, come una schiera di nuovi templari, sbaragliando i quali si farebbe cadere una delle ultime difese dei bastioni romani.

Da qui, anche, il sostegno ai movimenti antisètte - sostegno talvolta palese, talaltra celato - da parte di certi avversari cattolici della Obra, quei cattolici preoccupati soprattutto di una cosa: che si creda "troppo", che si prendano "troppo" sul serio il paradosso e la radicalità del vangelo. Ma è un sostegno forse un po' masochista perché quei supporter clericali sono spesso dei religiosi - con tanto di voti di castità, povertà, obbedienza - e, dunque, rientrano essi stessi nella condanna liberal di ogni esperienza religiosa "forte". Sarebbero anch'essi dei "fanatici" da "deprogrammare".

Tutto questo tramestìo, così spesso ignorato, al riparo delle quinte, non è - badate bene - la solita fantateologia; né (Dio scampi!) è una caduta in quella dietrologia della quale dianzi si parlava con l'ironia che merita. Si tratta di dinamiche e di fatti accertati.

E' successo, tra l'altro, un fatto che ha sorpreso chi non conosca la vera posta in gioco in questa lotta senza esclusione di colpi. I giornali del mondo li scorrete pure voi e, dunque, sapete quanto me che la stampa anglosassone di solito non dedica che scarna, magari sprezzante attenzione alle cose cattoliche: roba da papisti, da hispanics, da irlandesi, da macaroni-eaters... Folclore pittoresco, nel migliore dei casi, roba da cartolina turistica con guardia svizzera, sedia gestatoria, flabelli...

Ebbene, proprio questa stampa generalmente distratta (per usare un eufemismo), in vista della beatificazione di monsignor Escrivà ha lanciato in prima pagina - e ha poi continuato, per settimane, con una campagna martellante - articoli virulenti contro ciò che il papa aveva in programma. Ora: è stato possibile documentare come dietro quelle campagne stessero i legami tra quei giornali (la cui proprietà risale agli ambienti duramente, spesso fanaticamente anticattolici cui si accennava) e i neworks degli antisètte, soprattutto americani.

Se si esamina con un minimo di attenzione la rassegna stampa, si constata come il tentativo fosse quello di far credere che il papa - sanzionando "l'esaltazione di uno spagnolo fanatico, creatore di una lobby segreta, forgiatrice a sua volta di altri fanatici" - non solo mostrava il suo vero volto di nemico della tolleranza liberal, ma copriva con la sua autorità un processo di beatificazione truccato, condotto in porto solo grazie al denaro, magari al ricatto di una potenza occulta.

Si è sostenuto, tra l'altro, che, in cambio del titolo di "beato" al suo fondatore, l'Opera si impegnava a riempire il buco creato nelle finanze della Santa Sede dalle speculazioni spericolate del vescovo americano di origine lituana con lo storico titolo di Horta presso Cartagine (una delle antiche diocesi del Nordafrica travolte dall'alluvione musulmana) e meglio conosciuto come responsabile della banca vaticana: il "sinistro" Paul Marcinkus...

Poiché, stando ai teologi in beatificazioni e canonizzazioni il papa impegna la sua infallibilità, lo "scandalo Escrivà" e "l'operazione Opus Dei" avrebbero tolto credibilità al dogma stesso. La riuscita della campagna di stampa, dunque, avrebbe aperto una crepa vistosa nello stesso edificio dottrinale della Chiesa cattolica. La scure, dunque, non è posta ai rami, ma alle radici stesse dell'albero ecclesiale.

Insomma, è ora di venire al dunque: che cos'è davvero questo Opus Dei che - sin dai suoi inizi, e ovunque operi - suscita tanto amore e tanto odio? Com'è nato, com'è cresciuto, com'è organizzato questo autentico "segno di contraddizione"?

Potrei rispondervi subito che, "nata" nel 1928 (vi renderete conto che le virgolette sono necessarie, dopo che vi avrò spiegato come è da intendersi quella "nascita"), dal 28 novembre 1982 - cioè, da sette anni dopo la morte del fondatore, avvenuta il 26 giugno del 1975 - la Societas Sanctae Crucis et Operis Dei, come dice il suo nome ufficiale, è la prima e sinora unica "Prelatura personale" della Chiesa cattolica.

Al che, però, seguirebbe di certo l'ovvia reazione: già, ma che cos'è una "prelatura personale"?

La risposta più precisa è, naturalmente, quella ufficiale; la definizione, cioè, che ne è data nello spesso volume rilegato in rosso e con lettere in oro che è l'Annuario pontifìcio e la cui redazione è presso la stessa Segreteria di Stato della Santa Sede.

Quel libro così autorevole, che sta sui tavoli "che contano" di tutto il mondo (dai giornali alle ambasciate, fino alle sedi dei servizi segreti...), così recita: "Le prelature personali sono strutture giurisdizionali non circoscritte in un ambito territoriale, aventi come finalità la promozione di una adeguata distribuzione dei presbìteri o l'attuazione di speciali iniziative pastorali o missionarie per le diverse regioni o categorie sociali".

Ricordato che questo istituto - nuovo nella storia della Chiesa che pure, in quasi duemila anni, sembrava avere ormai tutto sperimentato quanto a forme canoniche - fu auspicato dal Concilio Vaticano II e fu precisato e regolamentato in seguito da alcuni motu proprio e da altri documenti pontifici, l'Annuario continua: "Spetta alla Sede Apostolica, dopo aver sentito le Conferenze episcopali interessate, erigere le prelature personali e stabilirne gli statuti. Esse sono rette da un prelato, come ordinario proprio, il quale ha il diritto di erigere un seminario nazionale o internazionale e di incardinarne gli alunni".

E, tanto per infliggervi altro "ecclesiastichese" e darvi tutto il complesso delle norme, aggiungo che il redattore vaticano conclude in questo modo: "È prevista la possibilità che laici si dedichino, mediante convenzioni stipulate con la prelatura, alle opere apostoliche della medesima. L'ordinamento canonico vigente prevede, inoltre, che negli statuti siano definiti i rapporti della prelatura con gli ordinari del luogo nelle cui Chiese particolari la stessa svolge, previo consenso del vescovo diocesano, le sue opere pastorali o missionarie".

Linguaggio da diritto canonico. Peraltro necessario, anzi indispensabile: in queste materie che riguardano l'ordinamento istituzionale della Chiesa ogni parola è pesata, è passata al vaglio di decenni se non di secoli di studio, di dibattito, soprattutto di esperienza. Nella comunità ecclesiale, la vita precede sempre il diritto. La proverbiale lentezza vaticana nasce anche dal rifiuto dell'astrattezza "illuministica", dall'allergia allo schematismo "ideologico", per il quale degli intellettuali a tavolino organizzano la realtà secondo le loro teorie e utopie.

Per tornare alla definizione ufficiale di "prelatura", è necessariamente linguaggio criptico per i non iniziati.

Può forse essere più comprensibile la risposta data, in un'intervista, da monsignor Del Portillo alla domanda: "Che cos'è una prelatura personale, e la Prelatura dell'Opus Dei in particolare?". "È una struttura gerarchica della Chiesa che riunisce sacerdoti e laici sotto la giurisdizione di un prelato, per realizzare un determinato fine apostolico tra i cristiani comuni che vivono in mezzo al mondo, insegnando a trasformare il lavoro normale di ciascuno in orazione, in occasione di un incontro con Dio".

Per provare a capirci con un'altra definizione che mi sembra tra le più efficaci per la sua sinteticità: "Una prelatura personale costituisce un programma pastorale della Chiesa giurìdicamente strutturato".

Sappiate subito, comunque, che l'Opus Dei ha impiegato 54 anni per ottenere questo status "prelatizio" che (dicono i suoi dirigenti) realizza in pieno le sue aspirazioni ed è da considerarsi, dunque, come il punto definitivo dì arrivo.

Più di mezzo secolo, in cui l'Opera ha cercato un posto che non trovava nel diritto canonico del tempo, "versando molte lacrime" (parole di Escrivà), accettando come male minore - con riserva e nella prospettiva della provvisorietà - le approvazioni che le venivano dalla Santa Sede, ma che la facevano "attraccare a un molo che, nel porto della Chiesa, non era il suo".

Espressione, anche quest'ultima, del fondatore: il quale morì prima che l'Opera potesse gettare l'ancora in quell'approdo tanto a lungo desiderato, cercato, perseguito. Ma del quale non ha mai dubitato. Scrìveva nel 1951 Escrivà ai suoi: "Non so quando verrà il tempo di una soluzione giuridica appropriata per noi. Anche se non conosco quel momento, anche se penso che richiederà parecchi anni, torno a ripeterlo: non dubito che quel tempo verrà...".

Forse, vi giungerà l'eco di un'altra disputa interna alla Chiesa circa quello che viene chiamato "l'itinerario giuridico dell'Opus Dei". È un'altra bagarre anch'essa assai enfatizzata (pare sia destino per questa Istituzione...) ma - da quel che mi sembra di avere capito studiando questo ennesimo dossier - mi pare che tutto si riduca a quanto segue.

Da una parte ci sono quelli dell'Opus Dei che sostengono che - avendo monsignor Escrivà "visto" in modo misterioso ciò che avrebbe dovuto creare - tutto era già chiaro sin dall'inizio e la sua lotta è stata tesa a realizzare il contenuto di quella visione. Dall'altra parte si dice invece che anche l'Opera - come altri istituti cattolici - procedette per approssimazioni successive, cercando il suo "posto" canonico sulla base dell'esperienza via via accumulata.

Non mi sembra un contrasto insanabile.

Comunque sta qui, tra l'altro, una delle ragioni della fama di discrezione eccessiva, anzi dì segretezza: costretta per decenni ad accettare - per mancanza di un'altra "casella" istituzionale nel diritto della Chiesa dell'epoca - lo status canonico di "istituto secolare" (che sembrava fare dei suoi membri, che si vogliono interamente "laici", quasi dei "religiosi" travestiti), l'Opera tendeva a non pubblicizzare le sue regole, gli statuti datile dalla Santa Sede.

Quelle norme canoniche non erano "segrete", com'è stato ed è tuttora detto: erano liberamente consultabili da chiunque lo desiderasse (oltre che esplicitamente accettate da ogni membro), ma c'era un certo ritegno nell'insistere su una struttura che era considerata inadeguata, temporanea.
Da questa discrezione, segno di un disagio, le voci di "leggi segrete", di "statuti occulti e inconfessabili".

Ma onestà impone di riconoscere che, raggiunta la mèta agognata della Prelatura, il Codex juris particularis Operis Dei (cioè le norme che reggono l'Istituzione e gli impegni dei membri) è diffuso senza problemi e sta in appendice a quasi tutti i libri che si occupano di questa realtà, anche quelli scritti da "opusdeisti".

In ogni caso, essendo ormai morto il fondatore, quando si arrivò in porto il ruolo di primo Prelato della "Società della Santa Croce e Opus Dei" fu assunto dall'allora quasi settantenne, ma in gran forma, Alvaro Del Portillo: ingegnere civile, poi laureato in filosofia e quindi in diritto canonico, era stato per oltre quarant'anni il collaboratore più stretto del beato, tanto che il suo diritto e dovere di succedergli fu votato subito e all'unanimità dal Congresso generale dell'Opera.

La quale ha proseguito nel suo slancio metodico e inarrestabile senza alcun problema, in piena continuità con quanto aveva preceduto: non si è, cioè, in nessun modo verificata quella crisi (da molti temuta, da altri sperata) che spesso, nella Chiesa, segue la scomparsa di un leader carismatico che ha dato vita a una nuova istituzione.

La scelta di Del Portillo è stata del resto del tutto gradita alla Santa Sede, come conferma tra l'altro il fatto che nel 1991 quel sacerdote è stato consacrato vescovo in San Pietro dallo stesso Giovanni Paolo II.

Benché una prelatura personale sia, per esprimerci in termini rozzi ma comprensibili, simile a una "diocesi con un popolo, ma senza territorio definito" (territorio dell'Opus Dei è il mondo intero, il suo "popolo" sono i suoi membri) e benché a capo di una diocesi ci sia, per definizione, un vescovo, il Prelato può non essere rivestito della dignità episcopale. Nulla dunque mancava, sul piano canonico, a Del Portillo allorché - essendo semplicemente prete, seppure con il titolo onorifico di "monsignore" - dal 1982 al 1991 resse la prima prelatura della storia della Chiesa.

L'elevazione a vescovo - oltre a costituire un ulteriore segno del favore della Chiesa - gli ha dato la possibilità di consacrare egli stesso il clero incardinato nella sua Prelatura, aumentandone così ulteriormente il prestigio: e, dunque, con nuove inquietudini da parte degli ostili; con rinnovati sospetti e accuse di essere una sorta di "Chiesa parallela".

In realtà, questa accusa deve fare i conti (tra l'altro) con un dato di fatto inconfutabile: l'Opus Dei non è un gruppo di "fratelli" e "sorelle" consacrati, una congregazione, un ordine, un "istituto di perfezione", dipendente dunque - a norma del diritto canonico - dalla apposita Congregazione vaticana per i religiosi.

L'Opus Dei - non essendo governato da un qualunque "superiore" ma da un "prelato" e dipendendo dalla Congregazione per i vescovi - fa parte della stessa struttura gerarchica della Chiesa. Dunque è anch'esso "la Chiesa", ne forma una parte essenziale, non può dunque (per la stessa logica canonica) esserle "parallelo".

In ogni caso, pericoli di questo genere sembrano ancor più improponìbili in quanto - al vertice - l'Opera professa (seguendo le norme cui è vincolata) una fedeltà alla Santa Sede, e al papa in particolare, che suscita la diffidenza proprio di quegli stessi che la sospettano (dunque, con qualche incoerenza) di voler "far da sé", dì andare per la sua strada "restauratrice".

Alla base, poi, i suoi statuti le impongono di non installare i propri Centri (o anche solo di iniziare l'apostolato con qualche suo membro) senza il consenso previo ed esplicito del vescovo del luogo, informandolo poi periodicamente della sua attività e inserendosi pienamente nella pastorale locale.

Dunque, la Prelatura deve affiancarsi ai vescovi e alle loro diocesi, non sostituirli Una collaborazione, non un antagonismo. Che le cose, in concreto, funzionino così, sembra confermarlo il fatto che ricordavamo: il plebiscito - mai visto prima - di oltre un terzo dell'episcopato mondiale per "implorare" dal papa la beatificazione di monsignor Escrivà.

 

 

 

Josemaría Escrivá