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Data: 01/10/2002
Autore: R. Piol
Fonte: Tracce
Editore: -

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Un padre e un amico

Intervista a monsignor Julián Herranz, presidente del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi. Conobbe di persona il fondatore dell’Opus Dei, proclamato santo il 6 ottobre scorso, e condivise con lui venticinque anni di vita. Una parola per descrivere Josemaría Escrivá? «Innamorato di Cristo e del mondo»

«Allora ero piuttosto lontano dalla Chiesa. Facevo il terzo anno di Medicina e dirigevo una rivista di studenti. Un giorno, a una riunione di redazione è arrivato un ragazzo con un articolo sull’Opus Dei, realtà che non conoscevo, in cui scriveva che era una “massoneria bianca”, che erano uomini misteriosi, cristiani quasi “eretici”.

Letto l’articolo gli dico: “Dobbiamo sentire le due campane; bisogna parlare con qualcuno di questi perché il tuo articolo è molto forte, è infamante”. Dato che ero anche rappresentante degli studenti e conoscevo alcuni studenti dell’Opus Dei, sono andato a trovarne uno e gli ho chiesto perché facesse mistero di questa sua appartenenza.

Lui mi ha risposto in modo molto naturale: “I primi cristiani non portavano in giro un cartello con scritto: sono un cristiano, sono buono, voglio essere santo; vivevano con naturalezza la loro fede nella società ed è quello che facciamo noi”. Quella risposta, molto virile e anche semplice, mi è piaciuta; sono andato a un loro centro e ho cominciato a conoscerli». L’appena ventenne studente di Medicina era Julián Herranz, ora arcivescovo e presidente del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi.

Mai avrebbe potuto immaginare cosa gli avrebbe riservato la vita dopo quell’incontro, così casuale, che oggi racconta con toni intensi e vivaci. Di lì a poco avrebbe incontrato Josemaría Escrivá, il fondatore dell’Opus Dei, e vissuto fianco a fianco con lui per venticinque anni, condividendo le cose di tutti i giorni e partecipando per un periodo alla direzione dell’Opera. Quando domenica 6 ottobre Josemaría Escrivá è stato canonizzato, monsignor Herranz ha visto proclamato santo «l’uomo attraverso il quale Cristo si è fatto presente nella mia vita»: un padre e un amico.

Partiamo dall’inizio, dalla prima volta che lo ha incontrato.
Fu in circostanze molto particolari: era morto improvvisamente un giovane membro dell’Opera e san Josemaría accorse subito al centro in cui eravamo. «Dov’è Suso?», domandò appena aperta la porta dell’appartamento. Mi colpì l’espressione profondamente addolorata del suo volto: era un padre che soffriva per la perdita del figlio.

Nella piccola cappella dove giaceva Suso, il Fondatore lo baciò teneramente in fronte e, recitando il responsorio, rimase a lungo inginocchiato davanti al tabernacolo. Poi venne con noi in un soggiorno attiguo, e lì lo vidi trasformato: il suo volto irradiava ora gioia e serenità. Ci guardò con affetto, e ricordo che disse più o meno queste parole: «Il nostro cuore è pieno di dolore, ma deve essere anche pervaso di gioia: perché accettiamo con amore la volontà di Dio nostro Padre, e perché Suso ha vinto la sua ultima battaglia: è rimasto fedele fino all’ultimo alla sua vocazione divina».

E aggiunse con forza: «Suso è passato dalla vita alla Vita; dall’amore all’Amore». Ciò che mi colpì in questo primo incontro fu appunto questo: il vedere chiaramente in lui come una “immagine” di Cristo, uno “specchio” in cui si rifletteva con naturalezza la perfetta unione dell’umano e del divino, in una personalità forte che trascinava.

Se dovesse descriverne in poche parole la figura, che cosa direbbe?
Una domanda simile mi è stata fatta quando sono andato a deporre per il suo processo di canonizzazione. Dopo tante sedute il presidente del tribunale mi chiese di farne la biografia in tre parole. Io rimasi pieno di stupore alla domanda. Come riassumere in tre parole venticinque anni di convivenza? Poi mi è venuta in mente la risposta e ho detto: «Me ne basta una sola: innamorato!». Innamorato di Cristo, dell’Amore di Dio incarnato e innamorato del mondo, visto alla luce originale della creazione.

Seguendo questo “innamorato”, la sua vita è cambiata a tal punto che da Madrid è arrivato in Vaticano…
Non era mia intenzione dedicarmi al Diritto canonico, ma san Josemaría mi chiamò al sacerdozio. Finiti gli studi teologici e ordinato sacerdote, mi consigliò di prendere la laurea in Diritto canonico, e ne diventai dopo professore. Era poco prima del Concilio Vaticano II. Dalla Santa Sede chiesero al fondatore dell’Opus Dei un canonista e lui mi domandò se ero disposto a lavorare in Curia.

Accettai, anche perché intuivo la particolare importanza pastorale del Concilio per la Chiesa e per il mondo. Così da quarantadue anni sono al servizio della Santa Sede. A Roma, sì, ma con frequenti viaggi all’estero. Ho lavorato prima nella lunga fase di preparazione della nuova legislazione della Chiesa alla luce del Concilio, e adesso come Presidente del dicastero che aiuta a interpretare e applicare con spirito pastorale le leggi universali della Chiesa.

C’è una bella differenza tra fare il medico e occuparsi di Diritto canonico, non trova?
Certo, ma a parte l’affinità antropologica - la medicina si occupa della salute dei corpi e il diritto canonico ha come legge suprema “la salute delle anime” -, un fatto del genere si può capire usando un’immagine che piaceva molto a san Josemaría e che una volta ho raccontato anche al Santo Padre: la teologia dell’asinello.

L’asinello che ha riscaldato nella mangiatoia Gesù Bambino quando gli uomini non l’hanno accolto e che Gesù ha scelto per entrare in trionfo nella città degli uomini: una bestia da soma che va dove la porta il Signore, è contento perché sente le grida di osanna al Maestro che lo porta e che se talvolta abbandona il cammino è riportato sulla strada dal Padrone che lo cavalca; l’asinello che fa con amore il lavoro, qualsiasi lavoro gli chieda il Signore, sia che porti i diamanti o la legna, perché sa che in fondo ciò che porta sempre è Cristo.

La “teologia dell’asinello” ricalca l’invito di san Josemaría: «Noi dobbiamo trasformare - con l’amore - il lavoro umano della nostra giornata abituale in opera di Dio, di portata eterna»?
Sì. Lui diceva che per essere contemplativi negli impegni quotidiani dobbiamo lavorare come Marta, ma con il cuore di Maria. Tutti dobbiamo lavorare - il Signore ci ha creato “perché lavorassimo”, si legge nella Genesi -, ma questo lavoro lo si può prendere equivocamente in modo molto piatto, come elemento di lotta di classe o come semplice modo di guadagnare il pane, oppure lo si può vivere, come Cristo per tanti anni a Nazareth, come uno strumento di perfezione umana e spirituale, di adempimento della volontà del Padre, di redenzione. Il lavoro deve diventare occasione e mezzo di santità personale e apostolato, per crescere in amicizia con Cristo e per portare a Cristo tutti quelli che ci stanno attorno: in famiglia, nell’università, nella fabbrica, nei campi, nel partito politico e nel sindacato, nell’arte e in qualsiasi altra nobile attività umana.

Ad affermare che Cristo c’entra con la vita quotidiana oggigiorno si finisce per essere quantomeno impopolari, se non addirittura osteggiati.
Non sempre, ma spesso si accetta un’idea di Dio confinato nelle chiese e nei libri di storia, nella periferia della vita umana, della società, della famiglia: vivere come se Dio non esistesse. E allora sembra che le opzioni siano due: o mimetizzarsi nello sciatto paesaggio culturale di oggi, adottando il culto dell’effimero, gli idoli alla moda, e allora il cristiano perde la sua identità; oppure costruirsi un ecosistema proprio con le caratteristiche del ghetto, e allora si avrebbe l’autoemarginazione dei cristiani.

Il messaggio di san Josemaría è un altro, perché insegna che questo dilemma è falso. Nessuna di queste due opzioni corrisponde all’essenza del cristianesimo, all’essenza della vocazione alla santità e all’apostolato insita nel battesimo.

La nostra epoca ha bisogno di restituire alla materia, alle realtà temporali e alle situazioni più comuni il loro nobile senso originario: metterle al servizio del regno di Dio, facendone mezzo e occasione del nostro incontro quotidiano con Cristo. San Josemaría amava ripetere che c’è un “quid divinum”, un qualcosa di santo, di divino nascosto nelle situazioni più comuni, qualcosa che tocca a ognuno di noi scoprire, sostenere e insegnare.

E questo è ciò che la Chiesa ricorda ai suoi fedeli dichiarando santo un uomo come Josemaría Escrivá?
Ogni santo è un dono che Dio fa alla Chiesa. Il Signore, dopo ogni concilio e soprattutto dopo quelli che hanno inciso molto nella vita della Chiesa, ha suscitato santi e istituzioni che aiutassero a far diventare realtà incarnata quel che è scritto nei documenti. Con il Concilio di Trento sono venuti sant’Ignazio di Loyola, san Carlo Borromeo, santa Teresa di Gesù e tanti altri santi che hanno dato alla Chiesa una nuova forza evangelizzatrice.

Nel Vaticano II il tema fondamentale - a mio parere - è stato la chiamata universale alla santità e all’apostolato e penso che il Signore, con la figura di san Josemaría, abbia voluto porre un esempio di come questa dottrina può diventare vita, realtà vissuta.

E verranno altri santi il cui carisma cura la stessa finalità, perché la dottrina del Vaticano II è ricchissima, ma deve incarnarsi ogni giorno di più nella realtà quotidiana: per ridare alla Chiesa nuova giovinezza e nuova capacità di incidere con forza evangelizzatrice in una società tendenzialmente pagana, dove sembra che molti vogliano vivere ignorando che Cristo è venuto a salvarla.

 

 

 

Josemaría Escrivá